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Arbitraggi elusivi
Scritto da Raffaello Lupi   
Venerdì 16 Ottobre 2015 13:34

Dialoghi Tributari, 6 / 2013, p. 608

RIVALUTAZIONE DELLE PARTECIPAZIONI: QUALI ELUSIONI SU UNA "IMPOSTA VOLONTARIA"?

Perrone Valentina[*] e RL

Ci eravamo già occupati di "imposte volontarie", che economicamente equivalgono a una sorta di prestito, in quanto consentono di ridurre "costi fiscali" futuri. Nel proporre questo prestito fiscale il legislatore di solito pone una serie di condizioni, che eventualmente limitano i vantaggi futuri, subordinandoli ad esempio al passare del tempo. Queste condizioni non sono previste per l'affrancamento delle partecipazioni, né sembra possibile introdurle a posteriori facendo leva sulla disposizione antielusiva o sull'abuso del diritto. Fino a che si rimane nella logica dell'istituto, e questo non viene stravolto, parlare di elusione o di abuso a fronte di un ottenimento troppo rapido dei "benefici" connessi alla rivalutazione, compresa la monetizzazione delle riserve della società rivalutata, contraddice la finalità stessa della normativa di rivalutazione.

Sommario: Un'imposta volontaria senza termini, presupposti o altre condizioni "aggirabili" (Valentina Perrone) - La conformità alla logica del sistema (RL)

Un'imposta volontaria senza termini, presupposti o altre condizioni "aggirabili" (Valentina Perrone)

Un volontario "prestito di imposta"

L'affrancamento del valore delle partecipazioni societarie risponde alle logiche delle "imposte volontarie", espressione che sottende tipicamente l'idea di uno scambio, previsto e incoraggiato dallo stesso legislatore, tra un'imposta oggi e maggiori valori fiscali spendibili domani [1]. La ratio legis di questa rivalutazione a pagamento di beni plusvalenti (le partecipazioni appunto) da parte di persone fisiche non imprenditori è infatti propriamente quella di un "prestito fiscale" [2], veicolato attraverso il versamento dell'imposta sostituiva e la successiva "spendita" dei maggiori valori fiscalmente riconosciuti. In altre parole, da un lato chi affranca - pagando l'imposta sostitutiva - lo fa in previsione di un'eventuale futura cessione delle partecipazioni, nell'ottica di risparmiare le imposte ordinariamente dovute sulle plusvalenze rivenienti dall'operazione; dall'altro il Fisco riscuote subito un'imposta, normalmente ridotta nell'ammontare, che diversamente riscuoterebbe solo in occasione di una futura effettiva cessione.

Mancanza di finalità agevolative o di altre condizioni

Quanto indicato al punto precedente dimostra come evidentemente l'affrancamento volontario non rappresenti una misura agevolativa di cui bisogna essere meritevoli, né tantomeno sia preordinato al raggiungimento di finalità extrafiscali (per esempio di incentivazione di determinati settori economici, incrementi di personale, tipologia di macchinari); il già indicato scambio tra gettito immediato e risparmio fiscale futuro, grazie - appunto - alle minori plusvalenze dovute alla rivalutazione a pagamento, non è soggetto ad altre condizioni. È questo un po' il filo conduttore, non solo dei ricorrenti affrancamenti delle partecipazioni societarie (e dei terreni) detenute da privati persone fisiche, ma anche delle numerose leggi di rivalutazione dei beni d'impresa.

La facoltà di rideterminare il valore delle partecipazioni è stata ammessa a partire dall'art. 5 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 e i relativi termini sono stati prorogati più volte [3], da ultimo con la legge di stabilità 2014 [4]; tale disposizione consente di assumere, ai fini della determinazione delle plusvalenze di cui all'art. 67, comma 1, lettere a) e b), in luogo del costo o valore di acquisto, il valore della frazione del patrimonio netto della società, associazione o ente, determinato sulla base di una perizia giurata di stima, con il pagamento di un'imposta sostitutiva del 4% o del 2%, a seconda che si tratti di partecipazioni qualificate o non qualificate. Il versamento è commisurato al "valore lordo" delle partecipazioni e non alla plusvalenza, con le implicazioni indicate al punto seguente.

La forfetizzazione dell'imponibile (valore lordo anziché plusvalenza)

L'affrancamento in esame, in quanto commisurato al valore lordo delle partecipazioni, presenta una marcata componente di forfetizzazione, nella misura in cui ha ad oggetto l'intero valore delle partecipazioni piuttosto che la differenza tra il valore di perizia e il costo fiscalmente riconosciuto di queste ultime e, dunque, il relativo incremento di valore. Tale meccanismo opera quindi secondo una logica "patrimoniale" più che "reddituale" [5], ponendosi fuori dalle note "simmetrie" della tassazione attraverso le aziende: di conseguenza, la base imponibile colpita dal prelievo sostitutivo in esame differisce da quella cui sarebbe applicabile l'imposta ordinaria; quest'ultima non colpirebbe, appunto, l'intero valore delle partecipazioni affrancate, ma la plusvalenza in esse latente (emersa a seguito della cessione).

Questa circostanza verosimilmente è destinata in qualche modo a controbilanciare la misura dell'aliquota dell'imposta sostitutiva, che è sì particolarmente appetibile, ma finisce col colpire valori già in parte riconosciuti fiscalmente. La convenienza di tale meccanismo impositivo, infatti, risulta tanto più marcata quanto più è basso il costo fiscalmente riconosciuto di partenza delle partecipazioni che si decide di affrancare, essendo per contro destinata progressivamente a ridursi, fino ad azzerarsi, in presenza di beni con un elevato valore fiscale di partenza: ben potrebbe accadere, invero, in linea di principio, che l'ammontare del prelievo sostitutivo finisca col superare quello dell'imposta che sarebbe ordinariamente applicabile sui plusvalori latenti, in assenza di rivalutazione. Appare evidente pertanto, muovendo dall'assunto che il dante causa del soggetto che effettua l'affrancamento in esame abbia già assoggettato a tassazione le plusvalenze emerse in occasione della precedente cessione, che il regime di cui alla legge n. 448/2001 sia potenzialmente suscettibile di dar luogo ad una duplicazione dell'imposizione su una manifestazione di ricchezza (le plusvalenze, appunto) già colpita in precedenza dal medesimo prelievo. Anzi, proprio in considerazione dell'ottica "patrimoniale", e non "reddituale", che contraddistingue la rivalutazione a pagamento, la stessa appare strutturalmente inidonea ad evitare il rischio di doppie imposizioni dello stesso reddito, rischio che appare invero connaturato a tale meccanismo [6].

In linea di principio, quindi, considerato peraltro che la legge non impone un periodo minimo di detenzione delle partecipazioni ai fini della rilevanza del valore rivalutato, l'affrancamento delle partecipazioni ai sensi della disposizione in esame, seguito dalla vendita di tali beni, potrebbe consentire la trasformazione di avviamento o di riserve di utili esistenti presso la partecipata in plusvalenze (almeno in parte) già tassate, ove - come detto - in occasione dei precedenti trasferimenti il dante causa del soggetto che rivaluta abbia già assolto le imposte ordinariamente dovute.

La trasformazione dei dividendi in plusvalenze come comportamento "di sistema" a seguito dell'affrancamento del valore delle partecipazioni

La rideterminazione del valore di partecipazioni societarie con riserve di utili, seguita dalla loro cessione, potrebbe essere un modo per monetizzare tali riserve in luogo della percezione di dividendi. Con l'aria che tira, dove le accuse di elusività dipendono anche solo dalla possibilità di realizzare lo stesso risultato economico in un modo fiscalmente più oneroso, è il caso di prendere in esame il problema.

Con riguardo a tale comportamento si potrebbe infatti sospettare che la tassazione della quota imponibile dei dividendi (49,72%) sia sostituita economicamente dalla rivalutazione a pagamento.

Analoghi sospetti potrebbero parimenti sorgere con riferimento al caso in cui chi detiene partecipazioni con "dividendi" nel patrimonio le venda, dopo averne affrancato il valore, e poi decida di ricomprarsele.

Si tratta di capire, allora, se queste fattispecie compongano o meno l'iter elusivo stigmatizzato dall'"abuso del diritto", normativizzato con la clausola generale di cui all'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.

A tal fine, tenendo presente che l'essenza dell'elusione e dell'abuso del diritto consiste nell'aggiramento, nel sotterfugio formalmente legittimo, ma contrario alla logica del sistema, occorre verificare quale spirito del sistema possa ritenersi tradito; se, in altre parole, sia riscontrabile un qualche espediente interpretativo, uno stratagemma in virtù del quale il contribuente sarebbe riuscito a prendersene gioco.

Al riguardo bisogna riprendere il presupposto secondo cui la ratio legis dell'affrancamento, inteso come meccanismo dotato di una propria logica, è quella del "prestito fiscale", canalizzato - come detto - attraverso il pagamento di un'imposta sostitutiva oggi per avere maggiori valori fiscali domani e, di conseguenza, minori plusvalenze in caso di cessione; su questa premessa, le monetizzazioni suddette equivalgono al vantaggio fiscale di chi cede le partecipazioni con un avviamento implicito e plusvalori latenti. Non si vede quale sia la differenza tra chi affranca con plusvalori latenti e chi lo fa con plusvalori evidenziati e riserve da distribuire. Nessuna censura di elusività dovrebbe quindi potersi formulare nei confronti di operazioni che utilizzano disposizioni convenienti per il contribuente, che il sistema non solo contempla, ma esplicitamente approva.

In tale ottica, infatti, una volta introdotta normativamente la possibilità di ottenere il riconoscimento ai fini fiscali della rideterminazione dei costi di acquisto, la spendita dei valori affrancati dovrebbe essere ammessa con riguardo a tutti i profili, anche quello della percezione indiretta dei dividendi. La trasformazione di dividendi in plusvalenze, o, se si preferisce, la riqualificazione della ricchezza riveniente da tali operazioni da reddito di capitale in reddito diverso, lungi dal costituire il corollario di una misura agevolativa, in questo contesto assurge a meccanismo di sistema, qualificandosi come un fenomeno strutturale, conseguenza immediata e diretta del suddetto "prestito d'imposta"; cioè dello "scambio" tra il pagamento di un'imposta oggi e il riconoscimento di maggiori valori fiscali domani.

Una diversa interpretazione, del resto, non parrebbe sorretta da una logica consapevole, posto che non si vede per quale ragione nell'ambito di quello che abbiamo definito "prestito fiscale" l'affrancamento dovrebbe considerarsi lecito e quindi esplicare effetti solo in occasione della circolazione di partecipazioni prive di riserve di utili e ritenersi, al contrario, diretto ad aggirare il sistema e quindi elusivo laddove la circolazione riguardi partecipazioni che hanno dividendi nel patrimonio.

Sul piano della corretta determinazione della ricchezza questa distinzione è sprovvista di ogni ragionevolezza e trascura di considerare che laddove il contribuente si limiti ad utilizzare lo schema del prestito d'imposta, pagando il prelievo sostitutivo nella prospettiva di risparmiare le imposte ordinarie in occasione di una futura cessione, non strumentalizza nessuna regola, né pone in essere espedienti di sorta; questo comportamento non tradisce alcuno spirito del sistema, ma anzi lo rispetta in pieno, perché ne esprime la logica tipica e consente di ottenere un risultato che lo stesso esplicitamente prevede.

La ricerca di un risparmio fiscale non può certo ritenersi vietata, ma lo diventa solo se e nella misura in cui vengano aggirati i principi del sistema tributario di riferimento. A maggior ragione non può esserlo nel caso in esame, considerato che - come sopra detto - questo risparmio, lungi dal costituire un'agevolazione cui guardare con circospezione, rappresenta piuttosto "uno scambio" proposto dal Fisco ai contribuenti per esigenze di gettito: pagare qualcosa oggi, per risparmiare qualcosa domani.

Alla medesima ratio legis sono ispirati del resto, oltre alle numerose leggi di rivalutazione dei beni d'impresa, anche altri regimi di affrancamento volontario: è il caso, ad esempio, di quello - abrogato e ricomparso - previsto dall'art. 4 del D.Lgs. n. 358/1997, che consentiva di assoggettare volontariamente la plusvalenza derivante da un conferimento d'azienda all'imposta sostitutiva del 19%, con conseguente riconoscimento fiscale in capo alla conferitaria dei valori correnti dei beni conferiti [7].

Tali considerazioni appaiono espressive di un principio di valenza generale, che può correttamente ritenersi dotato di forza espansiva rispetto a qualunque regime di imposizione volontaria i cui effetti, oltre ad essere contemplati, sono esplicitamente approvati dal sistema, tra i quali rientra, per l'appunto, anche quello introdotto dalla più volte richiamata legge n. 448/2001.

Il 4% come aliquota "congrua" nel sistema di coordinamento impositivo "società-soci", dell'imponibile "lordo" e della tempistica

Un ulteriore punto di osservazione per confermare l'assenza dei profili elusivi indicati sopra viene dall'analisi della congruità delle aliquote.

A tal fine occorre in primo luogo evitare commistioni tra la tassazione in capo al socio a seguito dell'affrancamento e la tassazione dell'utile maturato in capo alla società nella quale è detenuta la partecipazione. Di conseguenza, bisognerebbe confrontare il carico impositivo derivante dalla cessione della partecipazione affrancata unicamente con quello che si genererebbe in capo al socio persona fisica, in assenza di rivalutazione, a seguito del "secondo passaggio" della tassazione dei redditi societari, cioè quello in cui i redditi affluiscono al socio, con dividendi o cessione delle partecipazioni.

Pertanto, assumendo che il valore lordo della partecipazione da rivalutare sia pari a 100 e che la stessa sia qualificata, il socio che decidesse di affrancare pagherebbe oggi un'imposta pari a 4 (il 4% di 100), ottenendo un incremento del valore fiscalmente riconosciuto e verosimilmente, come sopra ampiamente chiarito, una corrispondente minore plusvalenza in occasione di una futura cessione della partecipazione rivalutata.

Ipotizzando altresì che l'utile maturato dalla società (plusvalenza) sia pari al 50% del valore lordo della partecipazione (e dunque a 50), e tenendo conto che una parte di tale utile debba essere assoggettato alle imposte sui redditi ordinariamente applicabili in capo alla società nella misura del 30% circa (considerando in modo arrotondato IRES ed IRAP dunque 15), la quota rimanente, pari a circa il 70% (e quindi a 35) sarebbe imponibile - come noto - in capo al socio nella misura del 49,72% (ovvero per 17,4). Quest'ultimo, pertanto, assumendo che la sua aliquota marginale sia quella più alta, si troverebbe a pagare il 43% su 17,4, talché, l'onere fiscale complessivo che sarebbe tenuto a scontare sui dividendi percepiti ammonterebbe a circa 7,4.

Coerentemente con quanto sopra osservato, quindi, per valutare la convenienza del regime di rivalutazione volontaria in esame bisognerebbe confrontare 4 (vale a dire l'ammontare dell'imposta sostitutiva) con 7,4: se sono queste le pietre di paragone, emerge con chiarezza come per il socio persona fisica la scelta di affrancare e cedere è mediamente proporzionale, in astratto, rispetto a quella di non farlo e attendere la distribuzione dei dividendi. È un ulteriore argomento per confermare la coerenza, o quantomeno la mancanza di vizi concettuali, nella ratio legis del prestito di imposta di cui stiamo parlando. Che si colloca coerentemente nel quadro della determinazione della ricchezza ai fini tributari. Come dimostra l'esempio prospettato, infatti, gli effetti fiscali generati dalle due opzioni sono complessivamente paragonabili tenuto conto, nel primo caso, che a fronte di un minor carico tributario si avrebbe in ogni caso un'anticipazione del prelievo.

Il prestito di imposta in esame, al pari di altre imposte volontarie come le rivalutazioni o il regime di imposizione sostitutiva originariamente previsto per le riorganizzazioni aziendali, si inquadra cioè senza vizi logici nel contesto della determinazione della ricchezza ai fini tributari, senza scomodare finalità agevolative di cui il contribuente debba essere considerato meritevole, né richiedere le fantomatiche "ragioni economiche" di cui parlerà Lupi. Chi si avvale di questo meccanismo per monetizzare i dividendi, insomma, non deve arrampicarsi sugli specchi per dimostrare che si tratta di una imposizione delle circostanze del caso di specie, ma può limitarsi a dire "lo potevo fare e l'ho fatto". La razionalità complessiva di un istituto normativo, come dirà anche Lupi, va valutata in astratto e non sulla convenienza concreta del singolo. In altre parole, alla luce dei correttivi sopra indicati, è chiaro che in astratto l'aliquota a prima vista "favorevole" è bilanciata dalla maggiore base imponibile, dalla anticipazione del prelievo sostituivo e, dall'altro, dalla tempistica del realizzo, che in linea di principio potrebbe anche non garantire l'ottenimento dei medesimi benefici fiscali a tutti coloro che si avvalgono dell'affrancamento. È plausibile, infatti, che qualcuno (chi vende le partecipazioni subito dopo aver rivalutato) possa massimizzare i vantaggi connessi a tale regime perché altri (chi vende magari dopo svariati anni) ci guadagneranno meno, ma complessivamente questo regime appare comunque dotato di una sua razionalità in termini di sistema.

Per tale ragione il beneficio della cessione di partecipazioni rivalutate resta "di sistema" anche qualora sia molto forte nel caso specifico, perché la razionalità e la coerenza di un regime impositivo devono essere valutate, ripetiamo, "in astratto", cioè tenendo presente tutti gli scenari potenzialmente suscettibili di verificarsi a seguito della sua applicazione.

Conferme sulla necessità di una scappatoia per aversi elusione

La vicenda si inserisce nel filo conduttore, ripetutamente evidenziato in numerosi articoli pubblicati su questa Rivista, secondo cui non elude chi, essendo a conoscenza di regimi fiscalmente più convenienti, si pone consapevolmente nelle condizioni di avvalersene.

Un vantaggio fiscale espressamente previsto dall'ordinamento o comunque ammesso, quand'anche implicitamente, non può finire con l'essere ritenuto indebito soltanto perché il contribuente consapevolmente decide di beneficiarne; né avvalersi della deduzione di un costo più elevato voluta dalla legge, ovvero della tassazione di una minore plusvalenza, o ancora di un correttivo alla doppia deduzione degli utili societari, può tradursi nel suo esatto opposto, e cioè in un comportamento disapprovato dal sistema, perché realizzato strumentalizzandone le regole e stravolgendone i principi.

Così stando le cose, la conclusione qui sostenuta dovrebbe allora valere a prescindere dalla maggiore o minore tortuosità dei percorsi negoziali utilizzati per raggiungere un risultato fiscalmente vantaggioso, ma comunque rispettoso delle regole e dei principi dell'ordinamento.

Si noti, al riguardo, che l'effetto conseguito in termini di carico impositivo nell'esempio sopra prospettato della vendita di partecipazioni rivalutate e poi ricomprate dall'acquirente potrebbe essere parimenti ottenuto trasferendole ad altra società di cui chi rivaluta detiene il controllo: in tal caso non sarebbe infatti necessario ricomprarle, posto che la gestione delle partecipazioni risulterebbe in definitiva riconducibile al medesimo indirizzo unitario. Si potrebbe inoltre ipotizzare che, laddove le partecipazioni siano detenute in una società operativa, una volta affrancate, vengano cedute alla capogruppo, che per reperire la liquidità necessaria ad acquistarle potrebbe ricorrere al capitale di debito procedendo poi alla deduzione degli interessi passivi sul finanziamento ottenuto [8]. Anche in questo caso è verosimile ritenere che le partecipazioni non verrebbero più ricomprate, essendo state trasferite in capo al soggetto che detiene il controllo del gruppo. O ancora, oggetto di affrancamento potrebbero essere partecipazioni in società che, oltre a disporre di riserve di utili, detengano beni strumentali di cui si ha interesse a mantenere la titolarità. A tal fine una strada percorribile (sebbene si tratti di un'ipotesi piuttosto border line) potrebbe essere quella di vendere le partecipazioni rivalutate ad altra società, la quale, dopo averne percepito i dividendi, le ritrasferisca al soggetto che ha affrancato.

Ci si può domandare se nelle ipotesi sopra descritte sia ravvisabile un'operatività giuridicamente artificiosa finalizzata al raggiungimento di un risultato che il sistema disapprova.

A ben vedere, in realtà, anche in questi casi, al di là della macchinosità dei procedimenti negoziali adoperati, il risultato conseguito sarebbe sempre il medesimo, pienamente in linea con la logica del prestito d'imposta sopra delineata, e cioè la possibilità di ottenere un risparmio futuro in cambio di un minore esborso attuale. Pertanto, quand'anche per effetto delle descritte operazioni si verificasse la trasformazione di dividendi in plusvalenze, non dovrebbero esservi difficoltà a riconoscere in questo fenomeno un meccanismo tipicamente di sistema, per le ragioni che abbiamo sopra esposto.

E tuttavia non è difficile ipotizzare che gli Uffici tributari, a fronte dei comportamenti sopra descritti, potrebbero cedere alla tentazione di stigmatizzare la presunta elusione fiscale in essi connaturata, allineandosi alla tendenza che si è progressivamente radicata in suggestioni indebite verso una impostazione civilistica del fenomeno, oltre che in alcune pronunce giurisprudenziali, consistente nell'identificare il fenomeno elusivo con un "abuso dell'autonomia negoziale" concessa dall'ordinamento civilistico, veicolato attraverso la strumentalizzazione delle "forme giuridiche" [9].

In particolare, secondo questa impostazione l'elusione sarebbe riscontrabile in presenza del ricorso a strumenti civilistici tortuosi, anomali, o comunque non sorretti, almeno apparentemente, da ragioni economiche-imprenditoriali.

Tornando all'esempio sopra descritto, la cessione delle partecipazioni affrancate previo pagamento dell'imposta sostituiva seguita dal riacquisto da parte del venditore potrebbe essere interpretata come una sorta di revoca della scelta iniziale di dismettere l'investimento, tale da far apparire il percorso negoziale seguito non lineare e privo di ragionevolezza sotto il profilo economico. In base a questo approccio interpretativo, quindi, la decisione di vendere dovrebbe essere sempre irrevocabile perché tornare indietro (ricomprando le partecipazioni) equivarrebbe a sconfessare la ragionevolezza del comportamento adottato, inducendo per ciò solo a ravvisare l'esistenza di intenti elusivi, a prescindere dalla piena liceità del risultato fiscale conseguito.

Tuttavia, posto che - come sopra argomentato ed in linea con quanto ripetutamente sostenuto anche in altri articoli su questa Rivista - l'essenza dell'elusione consiste nel consapevole aggiramento dei principi del sistema tributario, l'eventuale anomalia o farraginosità del percorso negoziale adottato dalle parti non dovrebbero assumere alcuna rilevanza nell'ottica delle contestazioni antielusive. Potrebbero tutt'al più rilevare quale elemento meramente indiziario, ma solo perché nell'elusione è generalmente riscontrabile l'impiego di strumenti negoziali inconsueti o comunque non diretti né lineari.

Nulla esclude, d'altra parte, che attraverso una fattispecie negoziale tortuosa, non sorretta da alcuna motivazione extrafiscale, possano essere conseguiti risultati fiscali pienamente coerenti con le regole dell'ordinamento tributario e con lo spirito del sistema: ritenere che la funzione della norma antielusiva sia quella di colpire presunti abusi dell'autonomia negoziale sarebbe quindi del tutto fuorviante posto che, in questi casi, la presunta anomalia o macchinosità degli strumenti giuridici utilizzati non varrebbe certo a rendere inopponibile agli Uffici il vantaggio fiscale perché ottenuto indebitamente.

La natura indebita di tale vantaggio, infatti, può essere apprezzata, lo si ripete, solo valorizzando opportunamente il ruolo dell'aggiramento, e dunque solo in presenza di una forzatura dello spirito del sistema e di una manipolazione della ratio legis: l'Amministrazione finanziaria deve essere però in grado di allegare una violazione dei principi e delle caratteristiche di fondo del tributo in considerazione: circostanza che - evidentemente - non pare riscontrabile in alcuna delle fattispecie sopra ipotizzate.

La conformità alla logica del sistema (RL)

L'affrancamento agevolato delle partecipazioni non ha limiti e condizioni normative, da cui si possa desumere l'elusività dei comportamenti descritti dall'articolo che precede; esso può essere inquadrato facilmente nei "prestiti di imposta" e l'aliquota, se si considera l'applicazione all'intero valore della partecipazione, e non alla plusvalenza, appare congrua in questa logica. Per questo l'articolo che precede ribadisce correttamente che l'acquisizione dei dividendi tramite plusvalenze, previa rivalutazione delle quote, ovvero in via diretta, hanno la stessa valenza sistematica. Non c'è alcuna "tortuosità" o "stranezza" nel comportamento di chi, dopo aver rivalutato le partecipazioni, cede la società sottostante. A proposito di stranezza, una commedia all'italiana degli anni settanta del secolo scorso, che prendeva spunto dalle Metamorfosi di Apuleio, si intitolava "L'asino d'oro: processo per fatti strani contro Lucio Apuleio, cittadino romano". Qualcosa del genere accade anche oggi a proposito dell'elusione fiscale, sia nelle indagini sia davanti alle Commissioni tributarie. Dove l'elusione sempre più spesso viene presunta dagli Uffici in base a divagazioni sulla imprecisata tortuosità civilistica dei comportamenti, trascurando la necessità di un aggiramento della logica del sistema tributario. Si dimentica che il comportamento in fraudem è quello che salvis legis verbis sententiam eius circumvenit, e che quindi il requisito dell'aggiramento non è nato nel 1997, con l'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, ma si intravede nel passato remoto del diritto, ai tempi delle codificazioni giustinianee. Come essenza della frode alla legge, dell'elusione o dell'abuso che dir si voglia. Argomentare sullo spirito degli istituti giuridici è però complicato e controverso, e inoltre lo spirito del sistema viene sempre più rispettato dai contribuenti; gli Uffici tributari sono però spinti dalle esigenze di budget e dalla preferenza verso le contestazioni "in diritto" rispetto alla più sfuggente, e imbarazzante, stima della ricchezza non registrata, in cui devono esporsi molto di più. È questa la ragione per cui l'evasione fiscale viene ormai contestata con rituali cortine fumogene di divagazioni economico giuridiche solo apparentemente in tema, ma in realtà prive di un preciso senso compiuto logico-sistematico. Queste litanie di stereotipi "fanno volume", disorientano i giudici e qualsiasi tipo di lettore, il quale sospetta che sotto sotto ci sia una logica, che lui non riesce a cogliere. Per garantire un risultato di servizio vengono redatti "verbali-polverone", che ammiccano ad una fantomatica elusività, nuova frontiera dell'inferno della ricchezza registrata, dopo le vecchie contestazioni sulle valutazioni di bilancio. Sono cortine fumogene difficilissime da contestare, perché negarne il senso compiuto, dimostrando che esiste solo in apparenza, è la sola via d'uscita per difendersi. Non è infatti logicamente possibile contestare con ragionamenti di senso compiuto espressioni che ne sono prive, e se si cerca di farlo si presuppone che esse abbiano un senso, il che è sufficiente ad un giudice disorientato a respingere il ricorso, secondo la logica del processo amministrativo [10]. Nella teoria della conoscenza scientifica si tratta di stereotipi e frasi fatte, genericamente in tema, che non sono falsificabili o verificabili, ma sono tuttavia abbastanza "in argomento" per ribattere queste accuse, replicando che è il lettore a "non capire". L'unica possibilità difensiva è quindi "scomporre" la contestazione, destrutturarla passo passo col dovuto rispetto per l'istituzione che l'ha redatta. La quale si è semplicemente uniformata ad un genere letterario nato sulle riviste tributarie, soprattutto quelle accademiche. Se la scienza complica le questioni semplici, con indecifrabili stereotipi dove l'ammiccamento, la divagazione e la tortuosità sono scambiati per "scienza", perché non dovrebbero fare lo stesso i militari della Guardia di Finanza o i funzionari dell'Agenzia delle entrate?

Note:[*]Dottore di ricerca in Diritto tributario presso l'Università LUISS Guido Carli di Roma e Avvocato in Roma

[1] Cfr. sul punto D. Stevanato, "L'imposta sostitutiva sui valori dei terreni e titoli in caso di successivi affrancamenti", in Dialoghi Tributari n. 1/2009, pag. 25.

[2] Espressione utilizzata su questa Rivista per vari articoli in cui è stato affrontato il tema del disconoscimento delle rivalutazioni di impresa, dalle cave di pietra ai diritti di fabbricazione dei farmaci. Cfr., in particolare: D. Stevanato, M. Varesano, R. Lupi, "Continuano le sviste sul diniego della rivalutazione a pagamento", in Dialoghi Tributari n. 5/2008, pag. 50; G. Bettiol, F. Bianchi, R. Lupi, "Cave di materiali inerti: un altro caso di contestazione fiscale delle rivalutazioni a pagamento", ivi n. 4/2008, pag. 129; R. Di Salvo, RL, "Disconoscimenti della rivalutazione monetaria per presunta carenza del requisito dell'iscrizione in bilancio: ipotesi sui beni in leasing", in Dialoghi dir. trib. n. 6/2007, pag. 887; S. Covino, RL, "Disconoscimenti della rivalutazione monetaria per presunta carenza del requisito dell'iscrizione in bilancio", ivi n. 5/2007, pag. 685. Sull'argomento cfr. altresì A. Malguzzi, R. Lupi, D. Stevanato, "Partecipazioni affrancate e redditi di capitale tra refusi normativi e preoccupazioni antielusive", in Dialoghi Tributari n. 2/2009, pag. 170 e ss.

[3] A partire dall'art. 2, comma 2, della D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, convertito dalla legge 21 febbraio 2003, n. 27.

[4] Legge 27 dicembre 2013, n. 147.

[5] Come oppurtanamente rilevato da D. Stevanato, "L'imposta sostitutiva sui valori di terreni e titoli in caso di successivi affrancamenti", cit., loc. cit., pag. 26.

[6] In tal senso si veda ancora D. Stevanato, "L'imposta sostitutiva sui valori di terreni e titoli in caso di successivi affrancamenti", cit., loc. cit., pag. 28.

[7] Tale meccanismo rappresentava la soluzione normativa prescelta per bilanciare l'asimmetria temporale esistente, in tutte le vendite e i conferimenti di complessi aziendali, partecipazioni di controllo o anche beni strumentali singoli, tra il momento di realizzo dell'elemento reddituale positivo, per l'alienante, ed il recupero dei costi per l'acquirente o conferitario. Da un lato, infatti, il soggetto che cede o conferisce l'azienda, in assenza di imposte sostitutive, avrebbe visto assoggetto interamente e immediatamente a imposizione il valore della plusvalenza al momento dell'operazione; dall'altro, invece, il soggetto che la riceve avrebbe recuperato fiscalmente tale investimento in un arco temporale più o meno lungo. Per ovviare a tale sfasamento il legislatore aveva quindi optato per l'introduzione di un'imposta sostituiva con una aliquota ridotta rispetto a quella ordinaria, in modo da rendere sostanzialmente equivalente l'esborso immediato (che grava sulla vendita) con il recupero di imposta futura (che spetterà invece all'acquirente). Anche in questo caso è evidente come non fosse in alcun modo ravvisabile un'agevolazione fiscale di cui bisognava essere meritevoli, semplicemente perché il risparmio ottenibile in via differita (oltre che meramente eventuale), derivante dalla possibilità di dedurre ad aliquota piena costi più elevati, non era altro che la contropartita sistematica della tassazione immediata, ma con aliquota ridotta, di altre componenti reddituali (per l'appunto, le plusvalenze generate dalle operazioni di riorganizzazione). La piena liceità sistematica del coordinamento tra tassazione e deduzione aveva trovato peraltro esplicita conferma anche nella prassi interpretativa; l'Amministrazione finanziaria, infatti, nella risoluzione 15 luglio 1999, n. 117/E (in Banca Dati BIG Suite, IPSOA) aveva espressamente riconosciuto come, attraverso l'opzione per il regime di imposizione sostitutiva di cui all'art. 4 del D.Lgs. n. 358/1997, i contribuenti non realizzassero alcun aggiramento di divieti implicitamente posti dal sistema tributario, ma si limitavano ad applicare una possibilità pacificamente prevista da una disposizione di legge, rientrante tra quelle alternative che consapevolmente e incondizionatamente l'ordinamento mette a disposizione degli operatori.

[8] Operazione sulla cui legittimità, R. Lupi, "Interessi passivi su debiti contratti per pagare dividendi: il principio è salvo", in Dialoghi Tributari n. 4/2013, pag. 405.

[9] Cfr. sul punto D. Stevanato, "Elusione, abuso del diritto e riqualificazioni a sorpresa degli imponibili dichiarati", in Dialoghi Tributari n. 3/2009, pag. 253.

[10] Si potrebbe parafrasare, a proposito delle contestazioni in esame, quella legge di Murphy che invitava a "non discutere con un idiota, perché la gente potrebbe non capire la differenza". Cercare infatti di dimostrare che un discorso senza senso compiuto "è sbagliato" si traduce in un altro discorso senza senso compiuto. Solo un discorso con un filo conduttore può essere confutato nei contenuti, mentre un insieme di stereotipi va etichettato come tale. Altrimenti il miscuglio di insinuanti riferimenti fattuali, parafrasi normative, divagazioni e stereotipi giurisprudenziali diventa un involontario trappolone per il contribuente, che si mette nei guai da solo, perché davanti a due discorsi senza senso, le istituzioni - disorientate - tendono comprensibilmente ad avallare quello proveniente da un'altra istituzione.

Un post per i partecipanti al convegno di treviso a proposito della giusta critica di Francesco Moschetti alle contestazioni antielusive secondo cui

la cessione delle partecipazioni rivalutate a pagamento allego articolo su Dialoghi tributari del 2013 perfettamente d'accordo con Moschetti comunque

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