transfer price interno "a la carte"? StampaLoading...
Tassazione societaria
Scritto da Raffaello Lupi   
Sabato 15 Ottobre 2011 12:13

 

Per capire le sentenze bisogna aver letto gli atti , e quindi i migliori annotatori sono coloro che hanno partecipato alla vicenda, che una sciocca tradizione di bon ton avvocatesco vorrebbe estromettere dalle annotazioni (hai visto mai si capisse qualcosa...), e forse la sentenza che segue è stata influenzata dalle circostanze del caso di specie. Però essa sembra introdurre una specie di transfer price interno "a la carte"...

trascurando che il costo sostenuto dall'acquirente corrispondeva a un ricavo del venditore, e che poi avrebbe dato luogo a un maggior costo fiscale. Insomma, rispetto a cosa diciamo che il prezzo è stato  "gonfiato"? In genere il prezzo "gonfiato" si ha quando il prezzo apparente è maggiore di quello effettivo , a fronte di un flusso  finanziario di ritorno per il compratore. Che paga 10 quello che vale 5 , e poi riceve sottobanco la differenza. Una incongrua differenza tra valore normale e corrispettivo è presunzione di simulazione di un corrispettivo  inesistente, oppure -allinverso- di pagamento in nero di una parte del corrispettivo. Se però il prezzo è diverso dal valore normale, e le circostanze (come nel caso in esame) escludono  un pagamento in nero, quale ne sia il segno, bisogna vedere se c'è un vantaggio fiscale indebito con la maggiorazione del prezzo. Perchè il prezzo che le parti hanno voluto è quello indicato. La finalità per cui è stato determinato il prezzo non c'entra con la tassazione attraverso le aziende, non deve interessare al fisco, a meno che non abbia provocato un vantaggio fiscale contrario allo spirito del sistema. Ad esempio l'utilizzo di una perdita destinata a scadere rapidamente , e quindi ad andare perduta, ovvero la scadenza di una agevolazione. Altrimenti, se non c'è questo vantaggio fiscale indebito, stiamo solo cavillando sul regime giuridico di vicende dichiarate, e inoffensive per l'erario. Inscenando un altro episodio dei controlli fiscali che "si sprecano".

 

Sent. n. 20451 del 6 ottobre 2011 (ud. dell'8 giugno 2011)
della Corte Cass., Sez. tributaria – Pres. e Rel. Pivetti
Irpef - Redditi d'impresa - Deduzione - Costi superiori a quelli di  mercato
- Esclusione dal beneficio
    Svolgimento del processo - Con avviso di accertamento notificato  il  14
dicembre 1998, l’Ufficio Imposte di Pesaro rettificò la dichiarazione  IRPEG
ed ILOR presentata dalla Banca Popolare  dell’Adriatico  s.p.a.  per  l’anno
1992. La rettifica si basava sui seguenti rilievi: 1) non deducibilità della
somma di L.  9.800.000.000  imputata  a  conto  interessi  passivi;  2)  non
deducibilità della  somma  di  L.  1.851.706.093  imputata  come  costo  per
l’acquisto di titoli di una società collegata; 3) non  deducibilità  di  una
somma di L. 182.187.000 in quanto non di competenza del 1992.
    La Commissione tributaria provinciale accolse  parzialmente  il  ricorso
della società contribuente annullando i  primi  due  recuperi.  La  sentenza
venne impugnata solamente dal fisco il cui ricorso è  stato  respinto  dalla
Commissione tributaria regionale con sentenza n.  97/2/05  depositata  il  4
ottobre 2005.
    Contro tale pronunzia l’Agenzia delle entrate  ha  proposto  ricorso  al
quale  la  Banca   Popolare   dell’Adriatico   s.p.a.   ha   resistito   con
controricorso.
    Motivi  della  decisione  -  1.  Con  il   primo   motivo   di   ricorso
l’amministrazione finanziaria deduce la violazione del  D.P.R.  n.  917  del
1986, art. 75, comma 5, nonchè vizio di motivazione. 11 motivo, nella  parte
in cui denunzia violazione di legge, è fondato.
    Esso  riguarda  la  prima  delle  due  poste  in  contestazione,  quella
rappresentata dalla somma di L. 9.800.000.000  portata  in  detrazione  come
interessi passivi. È pacifico tra le parti ed è riconosciuto dalla  sentenza
impugnata  che  la  Banca  Popolare  dell’Adriatico  s.p.a.   non   ha   mai
corrisposto, nè accreditato tale somma nè a titolo di interessi  passivi  nè
ad altro titolo e che  la  stessa  banca  non  ha  mai  compiuto  operazioni
suscettibili di determinare un tal suo debito per interessi.  Tale  dato  di
fatto è sufficiente a confermare la legittimità della ripresa a  tassazione,
secondo l’argomentazione esposta dall’Ufficio: "una  volta  scoperto  che  i
costi non  sono  effettivi,  cioè  non  attengono  ad  operazioni  economico
finanziarie reali, questi costi non sono deducibili".
    La controricorrente sostiene che a norma del D.P.R.  n.  917  del  1986,
art. 75, - secondo cui le spese e gli altri  componenti  negativi  non  sono
ammessi in deduzione se e nella misura in  cui  non  risultano  imputati  al
conto dei profitti e delle perdite relativo all’esercizio  di  competenza  —
l’imputazione  al  conto  economico  è  l’unico  requisito   (necessario   e
sufficiente) per la deducibilità degli  elementi  negativi  del  reddito  di
impresa. La norma non ha il significato  che  ad  essa  pare  attribuire  la
controricorrente e comunque non ha il significato di escludere il potere del
Fisco di negare la deducibilità di spese accertate come inesistenti, pur  se
imputate in bilancio al conto delle perdite.
    La difesa della società contribuente e la sentenza impugnata  ammettendo
il carattere fittizio della iscrizione hanno in  realtà  dato  rilievo  alla
deduzione secondo cui una perdita vi sarebbe stata effettivamente  anche  se
per un titolo diverso (o, per meglio dire,  per  un  fatto  diverso)  e  non
risultante dal bilancio. La perdita sarebbe derivata da operazioni in valuta
e la banca non le avrebbe riportate in bilancio come tali  ma,  al  fine  di
mascherare la  propria  condotta,  avrebbe  iscritto  per  pari  importo  la
suddetta voce di interessi passivi.
    La deduzione non è rilevante in quanto una "compensazione" di tal specie
non è ipotizzabile, e non per motivi  di  qualificazione  o  classificazione
della perdita, ma per  motivi  sostanziali.  La  deducibilità  di  interessi
passivi mai corrisposti e mai maturati deve essere esclusa ex se e  non  può
essere affermata sulla base della deduzione di altre perdite  effettivamente
subite in conseguenza di altre e diverse operazioni ma non contabilizzate nè
in bilancio nè nella dichiarazione.  Non  si  tratta  di  una  questione  di
qualificazione o  classificazione:  il  carattere  fittizio  o  veridico  di
ciascuna iscrizione deve essere valutato a sè ed una  iscrizione  falsa  non
può essere compensata con la mancata iscrizione di una  posta  effettiva  di
segno economico inverso.
    Tanto è sufficiente e decisivo,  ma  vi  è  anche  da  rilevare  che  il
controricorso e la  sentenza  impugnata  nulla  dicono  circa  la  fonte  (i
presupposti fattuali) ed il modo di rilevamento  della  pretesa  perdita  su
cambi e sulla prova della effettività di essa elementi in assenza dei  quali
la perdita su cambi sarebbe stata comunque indeducibile.
    2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia violazione del D.P.R. n.
917 del 1986, art. 75, comma 5, nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art.  37,
(nell’illustrazione della censura,  l’amministrazione  finanziaria  richiama
anche il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9).
    Il motivo è fondato.
    Anche in questo caso i dati di fatto della  questione,  quali  enunciati
dalla sentenza  impugnata,  sono  sostanzialmente  incontroversi.  La  Banca
Popolare dell’Adriatico s.p.a. ha acquistato da una consociata alcuni tìtoli
a prezzo superiore a quello di mercato (al presumibile  fine  di  effettuare
indirettamente un finanziamento in favore della collegata  stessa).  È  cioè
pacifico che la spesa iscritta a bilancio era superiore al valore di mercato
dei titoli acquistati quale definito dal D.P.R. n. 917, art.  9,  e  che  il
sovraprezzo  non  aveva  funzione  di  corrispettivo  ma  di   finanziamento
presumibilmente gratuito. Nessun rilievo ha  la  circostanza  che  i  titoli
acquistati siano stati appostati al valore (fittizio) di acquisto, nè che in
tal modo la società cessionaria dei titoli non abbia potuto  far  valere  la
minusvalenza collegata alla riduzione di valore dei titoli in questione,  nè
che la società controricorrente dovrà - potrà prima  o  poi  far  valere  la
minusvalenza corrispondente alla differenza tra il prezzo pagato e il  minor
valore  di  mercato  (ed  anzi  tale  eventualità   conferma   ulteriormente
l’illegittimità della deduzione del prezzo artificiosamente gonfiato).
    La sentenza impugnata ed il  controricorso  sono  incentrati  sulla  non
sindacabilità del prezzo dichiarato dalle parti. La deduzione  è  infondata:
allorquando il prezzo sia in tutto o in parte fittizio come tale trattandosi
di  una  maggiorazione  del  prezzo  non  giustificata   sul   piano   della
corrispettività è indiscutibile la sua non inerenza e comunque  la  mancanza
di prova in ordine a tale requisito.
    Il ricorso deve quindi essere accolto e poichè non sono necessari  altri
accertamenti la causa può essere decisa nel merito con il rigetto  integrale
del  ricorso  opposto  all’accertamento  n.  *3173000316*  Irpeg-Ilor   1992
notificato il 14 dicembre 1998. Le spese del giudizio di legittimità seguono
la soccombenza mentre possono compensarsi per giusti motivi quelle dei gradi
di merito.

    P.Q.M. - - accoglie il ricorso;
    - rigetto il ricorso proposto dalla Banca popolare Adriatico  s.p.a.  in
opposizione all’accertamento n. *3173000316*  Irpeg  -  Ilor  1992  ad  essa
notificato il 14 dicembre 1998;
    - condanna la Banca popolare Adriatico s.p.a. alle spese del giudizio di
legittimità, liquidate in complessivi Euro  20.000,  di  cui  Euro  200  per
esborsi oltre 1 spese prenotate a debito;
    - compensa tra le parti le spese dei gradi di merito.
                                                               

Commenti

avatar Alextheslicer
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Peraltro sembra passare un'equivalenza pericolosa tra elemento di reddito fittizio (anche in parte) e elemento di reddito non inerente. La fittizietà (eventuale) di una componente non ha nulla a che fare con la non inerenza ed anzi la nega posto che un componente per essere non inerente dovrebbe essere stato quantomeno sostenuto....al corrispettivo eccessivo e alla sua supposta non inerenza dovrebbe conseguire al più una valutazione circa l'eventualità che il cedente abbia restituito tutto o parte del corrispaettivo al cessionario da gestire nell'ambito di un eventuale accertamento induttivo. L'inerenza di cui al comma 5 del 109 dovrebbe limitarsi a mio avviso ad una inerenza "qualitativa" quando cioè la natura del costo sostenuto non ha attinenza economica con l'attività svolta (la classica pelliccia per la moglie dell'amministra tore delegato).
E' interessante anche la prima parte della sentenza, quella in cui si discute della deducibilità di una componente negativa la cui natura sia stata "camuffata" per ragioni (si intuisce) di maquillage.
La sentenza sembra considerare le due voci (quella fittizia imputata e quella vera non imputata) come due componenti autonome e non interdipendenti senza cioè considerare che l'una esiste in quanto non esiste l'altra. Lascia perplessi quindi l'affermazione per cui "il carattere fittizio o veridico di ciascuna iscrizione deve essere valutato a sè e una iscrizione falsa non può essere compensata con la mancata iscrizione di una di segno economico inverso".
avatar FaGal
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RL, ma la controparte che beneficiava di un interesse attivo era italiana?
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