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Una teoria per i tributaristi

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Home Tassazione societaria i processi verbali di disquisizione impoveriscono il paes
i processi verbali di disquisizione impoveriscono il paes PDF Stampa E-mail
Tassazione societaria
Scritto da Raffaello Lupi   
Martedì 14 Febbraio 2012 14:15

Paradiso della ricchezza nascosta, inferno di quella palese, ovvero le colpe di ciò che non è registrato ricadono su quello che è visibile. Ma purtroppo per scoprire la ricchezza non registrata bisogna

 

valutare,esporsi , mettersi in discussione, stimare, mentre per modificare il regime giuridico di vicende palesi è sempre possibile dire che "ci ha guidato la legge". Ecco quindi i processi verbali di disquisizione, una specie di piccole monografie, asettiche, erudite, tendenziose, incomprensibili, ma non abbastanza da renderne evidente, a un osservatore esterno, la loro mancanza di senso compiuto. Con questi processi verbali di disquisizione si chiudono i "tutoraggi" delle grande aziende, con cui il fisco fa come il pastore che, mentre le pecore scappano, sorveglia attentamente il cane. Quest'anno il frutto dell'azione di controllo fiscale ha reso poco più dell'anno scorso, e non so se qualcuno si è chiesto come mai sono state chiuse, in zone cesarini, la maggior parte delle controversie fiscali delle grandi banche sui "dividend washing" e varie ipotesi di elusioni fiscali...già perchè altrimenti le statistiche probabilmente finivano sotto l'anno precedente. Perchè ormai la manna delle contestazioni antiabuso è finita, perchè nelle aziende, almeno dal 2006, quelli che si presentano suggerendo una scappatoia per pagare legalmente meno tasse, magari con nella 24 ore il "parere pro veritate" del professorone che in pubblico sostiene le ragioni del fisco,  vengono sempre più spesso cortesemente messi alla porta. Quindi i margini per fare budget sulle aziende si riducono e allora si cominciano a contestare come elusive o antieconomiche le questioni più innocue, verbalizzando sproloqui sul nulla....e le aziende estere reagiscono come segue , cioè se ne vanno, in Italia non ci vengono, perchè è sempre più ritenuto un paese inaffidabile...Lo scrive come segue  il corriere della sera non La Padania....

PPROFONDIMENTI

Permessi, burocrazia, regole incerte 
Perché gli stranieri non investono

Nel 2011 taglio del 53%. La presenza internazionale in Italia vale 337 miliardi di dollari

 

Il ministro Sviluppo Economico Corrado PasseraIl ministro Sviluppo Economico Corrado Passera
A confronto, il calo del reddito nazionale tra l'1 e il 2% previsto per il 2012 sembra un'inezia. Perché quello di cui parliamo ora vale - in termini percentuali - 35 volte tanto. E' il crollo del 53% degli investimenti diretti esteri entrati in Italia nel 2011: in termini assoluti non sono naturalmente i maxinumeri del Pil, ma il loro peso vale comunque molto, anche come volano dell'economia. Il calcolo - quel dimezzamento in soli dodici mesi - arriva da chi dell'argomento se ne intende: il Comitato investitori esteri di Confindustria, un «club» di oltre ottanta aziende internazionali, dalla «corporate America» al «made in Germany».

Ma se quel -53% fosse solo una sorta di contingenza, un numero particolarmente duro perché riferito a un anno - il 2011 - altrettanto difficile per l'Italia? Purtroppo non è così. In base a dati Ocse, l'Italia è penultima in Europa - davanti solo alla Grecia - nella classifica di chi tra il 2001 e il 2010 ha incamerato maggiori investimenti esteri. La «hit parade» abbraccia tutti i Paesi europei dell'Ocse e ne calcola il rapporto medio tra investimenti esteri in entrata e Pil nell'ultimo decennio. Che l'Italia, con il suo 1,2%, viaggi diverse lunghezze dietro Regno Unito (4%) e Spagna (3,2%), non è una particolare sorpresa. Ma a batterci sono anche altri Paesi dal curriculum economico meno internazionale del nostro, almeno fino a qualche decennio fa: ci sono il 13,6% dell'Irlanda, il 9,9% dell'Estonia, il 6,9% della Slovacchia, il 4,3% dell'Ungheria e il 2,4% del Portogallo.

 

Bisogna superare «gli impedimenti burocratici e di altra natura» che frenano gli investimenti stranieri nel nostro Paese: investimenti che invece possono essere un elemento di sviluppo e fornire un «contributo anche in termini di occupazione giovanile» ha detto ieri il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dietro l'allarme del Quirinale non c'è solo quel -53% già segnalato sopra, ma anche il suo paragone - quasi impietoso - con la tenuta degli investimenti diretti esteri in Francia, invariati tra il 2010 (l'anno del rimbalzo dopo la grande recessione) e il 2011 (l'anno della nuova crisi). Eppure anche la Francia ha incassato gli scossoni - per quanto minori dei nostri - della crisi del debito mediterraneo. Eppure la Francia non è il primo Paese che viene in mente quando si parla di economia aperta al mondo. Nonostante gli «eppure», però, tra Ventimiglia e Mentone la distanza si è allungata.

Che cosa non va in Italia? Che cosa tiene lontane molte aziende straniere? Da noi «c'è una sostanziale inaffidabilità delle procedure amministrative. Entri in un Paese dove sai come stanno le cose oggi, ma tra sei mesi possono andare in un modo completamente diverso. Ci vuole un sacco di tempo per mettere in piedi un nuovo impianto»: sono le parole di Carlo Scarpa, docente di economia e politica industriale all'università di Brescia e redattore di lavoce.info . 

E allora? Per Scarpa bisogna arrivare a «una riforma della pubblica amministrazione che convinca gli investitori che siamo un Paese normale». E, probabilmente, non la stessa nazione dipinta dalle classifiche della Banca mondiale sulle procedure fiscali: siamo 128esimi su 183 nel «ranking» sulla semplicità dei pagamenti, 49esimi nel numero di versamenti, 123esimi nella durata della procedura. E lo stock totale di investimenti stranieri vale circa 337 miliardi di dollari, contro i 614 della Spagna, i 674 della Germania, i mille miliardi e passa della Francia e i quasi 1.100 del Regno Unito.

A perdere nel confronto internazionale, poi, non è solo l'Italia in generale, ma anche la sua zona più «dinamica» e internazionale, la Lombardia. Prendiamo la percentuale di addetti nelle imprese a partecipazione estera sul totale della forza lavoro: la regione della capitale economica nazionale si porta a casa un 9,2% che è sì il più alto d'Italia ma è anche la metà dell'Ile-de-France (Parigi e dintorni) e della Comunidad de Madrid. E se Parigi è pur sempre Parigi e Madrid, nonostante la crisi, è pur sempre Madrid, a battere la Lombardia ci si è messa anche la regione francese di Rodano-Alpi: ben lontana dal fulcro parigino, eppure sempre più internazionale della Lombardia, battuta 10,6 a 9,2. 
Peccato, perché - secondo i calcoli riportati da Confindustria - ogni 10 miliardi di euro di investimenti esteri che entrano in Italia, si crea un valore aggiunto diretto di 2,5 miliardi l'anno. E - last but (assolutamente) not least - germoglia un nuovo +0,23% di crescita strutturale annua del Pil. Grazie soprattutto a chi investe ex novo, più che a chi semplicemente acquisisce.

Per attirare più investimenti c'è chi chiede più certezze, ma anche chi suggerisce meno tasse e più incentivi per le attività di ricerca e sviluppo, così da calamitare dall'estero anche il «cuore nobile» di tante aziende. Che, però, si scoraggiano anche per un altro motivo, più immediato e «popolare»: siamo un Paese di poeti, ma non di scienziati. In Italia nel 2010 sarebbero mancati all'appello 19.700 ingegneri, 14.600 laureati in economia o statistica e 7.800 profili medico-sanitari: è la differenza tra il numero di laureati che le imprese volevano assumere nel 2010 e quanti sono effettivamente usciti da quelle facoltà l'anno precedente. I numeri (un'elaborazione di Confindustria su dati Eurostat) si rovesciano sulle specializzazioni letterarie (10.200 diplomi «di troppo») e politico sociali (-15.100). La conclusione: perché un'impresa tedesca di turbine dovrebbe investire in Italia se - a quanto sembra - c'è il rischio di non trovare gli ingegneri adatti?

Giovanni Stringa14 febbraio 2012 | 8:16

così finalmente ci liberiamo dei grandi evasori, e i posti di lavoro li creeranno giornalisti, pubblici ministeri, marescialli, impiegati alla regione, assessori circoscrizionali e professori di liceo, la salsa greca si avvicina...speriamo di sbagliarci dopotutto  nessuno è profeta in patria

Commenti

avatar Giuseppe Gargiulo
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Caro Raffaello,

Diverso tempo fa sul sito costituzionalis mo.it , mi capitò di leggere questo brano molto insolito (che all'epoca non riuscii ad apprezzare nella sua valenza immediata) ma che, evidentemente, mi è rimasto impresso, nascosto nei cassetti della memoria. Adesso leggendo il tuo post, quasi per un istinto riflesso, è riemerso nella mia memoria, e lo riproduco in un passo essenziale:

“Il grottesco nella meccanica del potere” (di Michel Foucault)
Il grottesco è uno dei procedimenti essenziali della sovranità arbitraria. Ma il grottesco è anche un procedimento inerente alla burocrazia applicata. Che la macchina amministrativa, con i suoi insormontabili effetti di potere, passi attraverso un funzionario mediocre, nullo, imbecille, superficiale, ridicolo, consunto, povero, impotente, tutto ciò è stato uno degli elementi essenziali delle burocrazie occidentali a partire dal XIX secolo. Il grottesco amministrativo non è stato semplicemente la percezione visionaria dell’amministrazione che hanno potuto avere Balzac, Dostoevskij, Courteline o Kafka. Il grottesco amministrativo è una possibilità che la burocrazia si è realmente data. Ubu “rond de cuir” appartiene al funzionamento dell’amministrazione moderna, come spettava al funzionamento del potere imperiale a Roma essere nelle mani di un istrione folle. E quello che dico dell’impero romano, ciò che dico della burocrazia moderna, si potrebbe dire di molte altre forme meccaniche di potere, nel nazismo o nel fascismo. Il grottesco di uno come Mussolini era di per sé iscritto nella meccanica del potere. Il potere si dava l’immagine di essere generato da qualcuno teatralmente travestito, disegnato come un clown, come un buffone.
Mi sembra che vi siano qui, dalla sovranità infame sino all’autorità ridicola, tutte le gradazioni di ciò che si potrebbe chiamare l’indegnità del potere. "
Come uscirne?
«Comprendere la propria sorte significa essere consci della sua differenza rispetto al proprio destino. E significa anche conoscere la complessa rete di cause che determinò quella sorte e la sua differenza rispetto a quel destino. Per operare nel mondo (anziché essere da questo manipolati) occorre conoscere come il mondo opera. […] E’ l’autoformazione e l’autoaffermazion e dei singoli individui la condizione preliminare della loro capacità di decidere se vogliono il tipo di vita presentato loro come sorte, che grazie all’illuminazione sociologica può acquisire vigore, efficacia e razionalità». (da Z. Bauman, Coversazioni sull'educazione).

Nella meccanica della burocrazia come in quella della vita, alla fine, è un problema di uomini, di educazione e formazione….in definitiva di chi siamo.
avatar FaGal
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Come si muovano le istituzioni economiche non é sempre facile da comprendere, ma alcuni concetti di base (purtroppo distanti dalla nostra cultura accademica e giuridica) si possono facilmente comprendere....Sebbene l'analisi economica del diritto (specie quello tributario, per ragioni che meglio spiegherò nel post ) sia insufficiente come chiave di lettura di sistema, é tuttavia necessario fare i conti con essa. E quello che ci ha insegnato é che per un privato le regole amministrative,(anche quelle fiscali, benché inevitabili) altro non sono che "costi di transazione", cioé un costo supplementare rispetto a quelli di produzione che incidono nell'attività economica del soggetto che le deve applicare (se può cercherà di evitarle). Le imprese possono sopportare apparati amministrativi inefficienti a fronte di regole inapplicate o minime, possono un po' meno affrontare apparati amministrativi che funzionano con molte regole, non possono affrontare sistemi con molte regole ed istituzioni che non funzionano...E siccome le nostre istituzioni sono impregnate di legalismo, anzi di normativismo legalista, si pensa ai provvedimenti taglia-leggi....Si può anche spingere in tale direzione, il problema é che capire se ciò consenta un recupero positivo della funzione amministrativa degli apparati pubblici, senza pensare invece a come si muove l'istituzione nei rapporti con il privato o con le altre istituzioni....Poi ci sono settori, per tornare a a quello fiscale, in cui il "legislatore boscaiolo" non può agire: posso tagliare leggi che incidono su fatti o eventi economici, che impediscono di fare, di operare, non possono tagliare norme, come quelle fiscali, che invece impongono un fare, un'obbligazione pecuniaria che di per sé l'azienda percepisce come costo. Qua il problema, semmai, é come garantirsi il pagamento delle imposte, cioé, come viene scritto da Raffaello Lupi é come chiedere le imposte a coloro che le pagano e soprattutto, di come chiederle con le buone (o con le meno buone) a chi occulta ed evade.
avatar FaGal
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Sebbene l'analisi economica del diritto (specie quello tributario, per ragioni che meglio spiegherò nel post....da Dialoghi tributari a "diritto amministrativo delle imposte" http://www.fondazionestudi tributari.com/index.php?option=com_content&view=article&id=426:da-dialoghi-tri butari-a-qdirit to-amministrati vo-delle-impost eq&catid=24:dialoghi-tribut ari&Itemid=68
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